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Quando ci hanno proposto di pubblicare questa intervista a Valerio De Angelis, autore e regista dello spettacolo teatrale “In direzione ostinata e contraria” in scena il prossimo 28 maggio alle ore 21 al Teatro Capocroce di Frascati, abbiamo subito accettato perché quando si parla di Fabrizio De André noi semplicemente ci inginocchiamo, abbassiamo gli occhi e diciamo di sì.
De André non è stato soltanto il più grande cantautore che l’Italia ha prodotto negli ultimi 150 anni, Fabrizio (e mi perdonerà se mi permetto di chiamarlo per nome) è stato IL Poeta e rappresenta tutto quello che c’è di bello e di brutto nella nostra società.
Attuale come non mai, oggi come ieri, come domani.
Anche se poi, in effetti, lo spettacolo non parla di De André.
Valerio, Perché la scelta di inserire De André all’interno di uno
spettacolo teatrale?
Chiariamo subito: lo spettacolo non parla della figura di De
André né accenna alla sua biografia, ma è ispirato narrativamente ad alcune sue
canzoni, di modo che, chi è a conoscenza dell’opera di questo cantautore, può
riconoscere e spero apprezzare i riferimenti nello spettacolo. Tuttavia,
l’opera teatrale può essere fruita e seguita anche a chi sia totalmente a
digiuno. Non posso negare che la scelta del titolo In direzione ostinata e
contraria vuole essere un chiarissimo riferimento e anche un omaggio
all’opera omnia di De André e in particolare alla fase finale della stessa. Si
tratta difatti di una celeberrima frase dell’ultimo brano inciso dal cantautore
genovese, Smisurata preghiera.
Cosa rappresentano i 3 personaggi citati nella sinossi? C’è una qualche simbologia dietro di loro e in particolare riguardo la scelta dei nomi?
I 3 personaggi citati nella sinossi prendono i loro nomi da personaggi presenti nelle canzoni di De André: Giovanni dal suonatore Jones, Tito dal Testamento di Tito e Franziska dall’omonima canzone. Non c’è alcuna simbologia particolare, se non un richiamo velato (e spero comprensibilmente gradevole per chi conosce l’opera di Faber) ai brani citati, non tanto nella drammaturgia narrativa del brano, quanto in alcune caratteristiche che possono emergere dalle canzoni e che hanno uno spazio di sviluppo più ampio all’interno di un testo e soprattutto di una rappresentazione teatrale. In questo senso, per tutto il testo, De André è una sorgente di ispirazione narrativa in quanto creatore di soggetti a cui ispirare i personaggi del testo. Si tratta in ogni caso di disperati, di solitari posti ai margini della società.
Nella sinossi si parla di terribili eventi climatici in arrivo sulla città di Genova. C’è un tentativo di sensibilizzazione riguardo i cambiamenti climatici ormai onnipresenti e sempre più devastanti?
Le vicende rappresentate nello spettacolo sono ambientate nel 2028, un futuro prossimo e ampiamente prevedibile. Si accenna ad una guerra terminata da poco, una società postbellica con ansie e lentezze di ricostruzione, ed una fuga in treno da Roma verso Genova, città quasi del tutto evacuata in vista di prossimi e prevedibili disastri climatici. Senza voler svelare nulla, il testo risente dell’atmosfera tesa propria dei nostri anni, dove si moltiplicano eventi drammatici dal punto di vista ambientale, anche in luoghi più vicini alla nostra zona di competenza (in questo caso l’Europa) e meno avvezzi alla gestione degli stessi. È anche vero che spesso la mala gestione dell’evento climatico è dovuto ad una scarsa memoria; basti pensare che la stessa città di Genova subì una tremenda alluvione nel 1972, non così diversa dalle alluvioni che annualmente colpiscono alcune zone del pianeta come l’India, gli Stati Uniti o il sudest asiatico, la stessa alluvione cantata da De André nel brano Dolcenera (ovviamente presente nel testo).
Quali canzoni sono state scelte e perché?
La scelta è stata effettuata in modo eterogeneo. Come detto in precedenza, non si tratta di un testo biografico (né tantomeno agiografico) su Fabrizio De André, ma di un’opera teatrale che ha una propria vita, con personaggi ispirati ad alcune canzoni del cantautore, che sono state scelti in modo casuale, o meglio, con una scelta casuale che poi si è piegata alla necessità del testo stesso. In fase di composizione, sapevo da dove cominciare (Roma), dove finire (Genova) e come arrivarci (un treno); sapevo che i personaggi sarebbero stati dei disperati invischiati in un viaggio improbabile, ma mai come questa volta, mi sono imposto una sospensione del giudizio rispetto a loro. La stessa sospensione che De André sceglieva spesso come punto di vista per parlare dei suoi personaggi. Uno dei motivi, a mio modo di vedere, del suo successo trasversale e intergenerazionale.
In definitiva, preferisco non citare le canzoni inserite, ma posso dire che l’intero spettacolo è pieno di riferimenti alle canzoni sia sotto forma di citazione sia dal punto di vista musicale.
Come De André ha influenzato la tua formazione?
Fin da bambino, avevo passione per alcuni suoi brani, pur non capendo immediatamente l’intero significato e soprattutto l’importanza della sua opera. In particolare, ascoltavo a ripetizione “Don Raffaè” e “Il Gorilla”, la prima per amore verso il ritmo musicale, la seconda per un’insana passione (mai del tutto sopita) verso gli animali. Dal momento che ho iniziato a suonare la chitarra, De André è stata una presenza costante, soprattutto perché si è rivelato essere un ponte verso persone più mature e più esperte, oltreché verso approfondimenti di tipo culturale. Tramite il disco “Non al denaro, non all’amore né al cielo” ho avuto modo di accostarmi, a 14 anni, all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters a cui il disco è ispirato; grazie al brano “Fiume Sand Creek”, è scattata in me la curiosità di approfondire la storia dei pellerossa e la narrativa memorialistica man mano pubblicata in italiano. Ci sono stati numerosi altri aneddoti legati a questa figura; mi piace citarne uno che credo possa aver cementificato il mio interesse: a Natale 1998 mi venne regalato uno libro con gli spartiti dell’opera omnia di Faber, pochi giorni dopo De André morì.
Il fatto, in parte inquietante, ha creato in me l’ossessione di voler approfondire questo cantautore. Ossessione mai sopita, ed ora, in qualche modo, sfociata in questa opera teatrale.
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Marco Brancaccia
Giornalista, scrittore, fotografo. Vive un carico di lavatrice alla volta e ha il fisico da alzatore di polemiche.