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Che lo si guardi o no (e io non lo guardo), il Festival di Sanremo rimane uno degli eventi di costume più importanti nella nostra vecchia Italia. Potremmo interrogarci sul perché un evento del genere, sempre uguale a sé stesso, che propone sempre le stesse cose, che offre uno specchio del desolante panorama musicale italiano, continui ad avere tanto successo.
Nell’articolo uscito ieri, “Sì, c’è ancora bisogno del Festival di Sanremo”, Mauro Lodadio ci racconta come si vive il Festival di Sanremo nell’epoca dei social network. Gruppi di ascolto, commenti spesso apodittici sui social, fantafestival. Ecco, le novità sono al di fuori del format. La resilienza tutta italiana rispetto a qualcosa di statico offre iniziative e attività che rinvigoriscono quello che è uno spettacolo lungo, noioso, scontato.
Ma è sufficiente questo per tenere in vita un Festival che non ha davvero nulla da aggiungere alla cultura, alla musica e all’intrattenimento?
Partiamo da un dato certo: è il Festival della Canzone Italiana. Così lo definiscono gli organizzatori. Ad essere in gara sono le canzoni, non i loro interpreti. Eppure, chi ha vinto Sanremo? Si fa il tifo per il cantante, si vota il cantante e la sua popolarità. La canzone, l’arrangiamento, il lavoro di cesello dei musicisti, dei parolieri, passa in subordine di fronte ai giganti imposti dalla cultura di massa.
Immaginiamo per un momento un festival di 20 canzoni interpretate dallo stesso cantante. Ah, che noia, direte voi. Certo, perché alla fine anche l’interpretazione fa il pezzo. Ma dovrebbe essere una cosa accessoria, non prevalente, mentre invece l’ingombro del cantante demolisce l’attenzione per la canzone.
E se lo stesso cantante interpretasse 20 canzoni?
Già, canzone. Definiamo ora la “Canzone italiana”. Dovrebbe essere quella ricadente nella tradizione melodica, delle ballate in quattro quarti o in dodici ottavi. Altrimenti diciamo che è il Festival delle canzoni in lingua italiana, giacché troviamo rap, blues, trap e chissà quale altra contaminazione. Sia chiaro, a me la contaminazione sta bene, se fatta con qualità e con un obiettivo. Sembra, tuttavia, che la contaminazione strizzi l’occhio alle mode, e le mode, si sa, sono passeggere e spesso dettate dal mainstream.
Immaginiamo ora un Festival di 20 canzoni italiane tradizionali, cantate dallo stesso interprete, che sono in gara. Mamma mia che noia. Eppure è proprio questo il manifesto del Festival. Una manifestazione vecchia di oltre 70 anni, dove troviamo sovente gli stessi interpreti di 60, 50, 40 anni fa. Ai quali però facciamo fare altro, perché, dai, il format del manifesto è proprio sbagliato.
E se fossero 20 canzoni tradizionali italiane?
Allora potremmo provare a fare una cosa: prendiamo dieci interpreti, e nelle varie serate affidiamo loro diversi brani, editi e inediti, per poi premiare il più bravo. In questo modo si andrebbe a valorizzare sì il lavoro di arrangiamento, di scelta, di proposta, perché no di coreografia. Andiamo a eliminazione, finché non ne restano tre o quattro, e alla serata finale magari si scambiano le canzoni, per vedere davvero chi è più bravo e più centrato su un determinato pezzo.
Come? Questa cosa già si fa e si chiama X-Factor? E ci sono pure là i gruppi di ascolto e i commenti apodittici sui social? Ok. Siamo un Paese vecchio. Siamo un Paese vecchio e reazionario che si lascia coccolare dalle certezze degli avi. E il Festival di Sanremo è una certezza. Di cosa lasciamo a ciascuno dei lettori il compito di definirlo.
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Damiano Morelli
Damiano Morelli è un linguista (in teoria), ma nella vita fa tutt'altro e si pregia di essere un buonista, un radical chic, un nerd. Ma di quelli vintage, originali degli anni '80.